Il lusso della sostenibilità
Lusso, unicità, esclusività e soprattutto sogno. Sono questi i termini legati alla moda e in particolare al lusso della moda. Mentre chi manifesta sensibilità nei confronti della sostenibilità della moda spesso usa altri termini come economia circolare, transizione ecologica, cambiamento climatico. I primi sono termini in forte contrasto ai secondi e nel dibattito pubblico, spesso, sono in netta contrapposizione. Questo succede perché viviamo nell’era del fast fashion, delle collezioni mordi e fuggi sfornate a ritmi frenetici anche più volte all’interno della stessa stagione. Collezioni realizzate con capi di scarsa qualità e a basso prezzo, ma che spesso imitano modelli ideati da designer blasonati e ricreano motivi iconici. Questo è il meccanismo che ha portato la gran parte delle persone ad acquistare a ritmo altrettanto frenetico capi dalla durata breve se non brevissima.
Fast Fashion vs Slow Fashion
“Il fast fashion non è in realtà una questione di tempo o di velocità, quanto piuttosto di avidità: vendere di più per fare più soldi”. Questo è quanto sostiene Kate Fletcher, attivista nel campo della moda sostenibile e titolare del progetto Local Wisdom, un interessante progetto che ha ambizioni planetarie e che vuole raccontare come l’indossare un abito possa rappresentare una storia di vita e di umanità, riportando al centro dell’attenzione non l’acquisto compulsivo ma i valori umani. È stata proprio Kate Fletcher a coniare anche l’espressione slow fashion, contrapponendo il modo di considerare e progettare la moda con i tempi lenti dell’artigianato al cambiamento frenetico imposto dal fast fashion.
Greenwashing e sovrapproduzione
È anche vero che gli stessi marchi del fast fashion si stanno impegnando in comportamenti sostenibili, stanno cercando in un certo senso di chiudere il cerchio. I colossi del fast fashion, ad esempio, vendono capi in fibre naturali, o riciclate, naturalmente con grande dispendio di risorse impiegate nella comunicazione e nella pubblicità. Queste politiche si chiamano Greenwashing, neologismo inglese che sta a indicare una azione di “pulizia” della brand reputation, che spesso ha risultati anche apprezzabili in termini di fatturato e che però non compensa affatto i danni ambientali e sociali causati dalla sovrapproduzione di abbigliamento. Resta cioè il fatto che quando un capo di abbigliamento costa poco è perché qualcun altro ha pagato il prezzo, in termini di sfruttamento del lavoro o dell’ambiente.
Il lusso della scelta
La sostenibilità non è solamente uno strumento di marketing, è una azione creativa e produttiva. Va a braccetto con la trasparenza del produttore e la consapevolezza del consumatore. Forse il più puro e auspicabile dei lussi è proprio quello di poter scegliere e di rifiutare prodotti portatori di pratiche non sostenibili, spesso anche illegali. Noi siamo quello che indossiamo perché il nostro essere al mondo si rispecchia anche nelle nostre scelte nell’abbigliamento.